Questo vuole essere un omaggio alla figura di Louis-Ferdinand Céline: stella caduta in fondo al mare…per far luce tra gli abissi.
DI VALERIO ALBERTO MENGA – 27 OTTOBRE 2014
“Puoi descrivere le peggiori infamie. Ma non in un modo che gli dia verità”.
L.F. Céline
Louis-Ferdinand Céline, pseudonimo di Louis Ferdinand Auguste Destouches, è uno degli scrittori più influenti del XX secolo. Figura molto discussa e ignorata per diverso tempo nel panorama della cultura europea del Novecento, a causa del suo ostentato antisemitismo e alle sue simpatie per la Repubblica di Vichy. Ora è un classico in via di riabilitazione. Nasce a Courbevoie nel 1894 e muore nel 1961 a Meoudon, nei pressi di Parigi, semi-dimenticato. Passa un’infanzia infelice con un padre duro e una madre con un carattere non abbastanza forte per contrastare le percosse che il marito, Fernand, non risparmia né al figlio né a lei. Non ama la famiglia Ferdinand. Tant’è che si sposerà tre volte, dopo due divorzi. Le uniche due figure famigliari alle quali è legato nella sua infanzia sono lo zio Edouard e la nonna materna Céline, dalla quale prenderà il nome utilizzandolo come pseudonimo. Trascorre l’infanzia in povertà, nella “miseria peggio della miseria”, la “miseria rispettabile”, quella miseria “che si tiene su”. Vive l’esperienza della Grande Guerra da volontario nell’esercito francese. Rimarrà ferito e verrà decorato con la Croce di guerra. Poi, dopo la laurea in medicina, verrà la professione di medico. Professione che, a differenza di quella di scrittore, ha sempre sentito come la sua vocazione. E difatti utilizzerà la penna come fosse un bisturi. Ha un debole per le gambe e i glutei delle donne, e adora le ballerine. Nella vita viaggia tra Europa, Africa, Stati Uniti e Canada; poi arriva il secondo conflitto mondiale. Sono anni decisi per l’autore. Si schiererà in posizioni antisemite vicine al Governo filo-nazista di Vichy. Nel dopoguerra deve scappare e riparare in Danimarca, in esilio, potendo ritornare in patria nel 1951, solo dopo l’amnistia
comprendente la confisca di tutti i suoi beni – presenti e futuri. Prima del ritorno in Francia trascorre 14 mesi in carcere per collaborazionismo. Morirà, colpito da un’emorragia cerebrale nel 1961, tra diverse difficoltà economiche, nell’emarginazione sociale – tra i suoi cani, il suo pappagallo e l’ultima moglie -, dopo aver terminato Rigodon, il suo ultimo romanzo.
E’ spesso considerato un autore della Destra culturale, ma Céline è uno di quegli autori che sfuggono alle ormai vecchie categorie politiche. L’intellettuale eretico della Destra sociale Giano Accame lo collocò tra gli intellettuali accusati di fascismo. Non può stare a Destra per il suo spirito anarchico, l’odio per la Famiglia e i valori borghesi… E non può stare a Sinistra per la sua visione negativa dell’Uomo. “Ero bambino allora, mi faceva paura la prigione. È che non conoscevo ancora gli uomini” scrisse nel 1932; “gli uomini non sono più che apparati digerenti”. Per lui “il proletario è solo un borghese mancato”. Come ci si può aspettare da lui che vesta i panni del rivoluzionario marxista? Céline è essenzialmente un anarchico. Tutto il resto è solo strumentalizzazione, antisemitismo a parte. Se c’è un autore che è sinceramente antisemita ed indifendibile su questo punto, questo è proprio lui. Compone ben tre libelli in tal direzione: Bagatelle per un massacro del 1937,La scuola dei cadaveri, del 1938, e I bei drappi, del 1941. A tal proposito Stenio Solinas nella sua Educazione intellettuale intitolata Compagni di solitudine, sottolinea che il suo antisemitismo non è né umorale né paradossale: “è sostanziale, è razziale, fa parte della sua visione del mondo…non devi far passare il manzo per maiale…”
E’ un odiatore puro. Cosa c’era da aspettarsi? La figura dell’ebreo è stata scelta più volte nella letteratura come obbiettivo su cui scagliarsi. Già con Shakespeare, Dickens…già con Dostoevskij, per citarne solo alcuni. Non è una novità. Shakespeare si può leggere, Dickens sì, Dostoevskij pure. Céline no, è roba da fascisti. Jean-Paul Sartre in merito alla questione fascista-collaborazionista riguardante lo scrittore disse: “Sarebbe un errore confondere collaborazionista e fascista. La maggior parte dei collaborazionisti fu reclutata fra i cosiddetti “anarchici di destra”. In loro l’anarchia non era che il segno del disadattamento. Inseguivano il sogno di una società autoritaria in cui integrarsi. Ma ciò che costituisce forse la migliore spiegazione psicologica del collaborazionismo è l’odio. Il collaborazionista è un nemico che le società democratiche portano perennemente in sé.” Tra i compagni di solitudine che Solinas ha scelto Louis-Ferdinand Céline è: “Il più amaro eppure il più poetico, in apparenza il più cinico e invece il più indifeso.” Quando in un’intervista del secondo dopoguerra, gli venne chiesto il perché avesse cominciato a scrivere, rispose semplicemente: “Per pagarmi l’affitto.”
E’ stato definito un pessimista. E di certo lo è. Il pensiero della Morte è centrale nelle sue opere, se non una vera e propria ispirazione. “La morte, a me, mi abita” scrisse. Non per niente il suo secondo romanzo è intitolato Morte a credito, dove viene raccontata la sua infanzia, la sua famiglia, la povertà, le malattie, le botte del padre…le umiliazioni continue… “La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte” scriverà. E poi: ”non si sale mica nella vita, si scende”. Una caduta verso il fondo è per lui l’esistenza. Ci si perde tutti nella Notte, alla fin fine.
Per Ferdinand, gli uomini, non sono altro che “morti in sospeso”. Una condanna a morte pende su di noi dal momento della nascita: “Memento morituri”.
A giudicare dai numerosi puntini di sospensione presenti nei “tweet” e sui vari profili Facebook parrebbe che Céline abbia vinto la sua battaglia di innovazione linguistica. Con il suo stile innovativo consistente in una prosa costellata da puntini di sospensione, per meglio far fede ai discorsi orali – così come li pronunceremmo nella vita reale, quella di tutti i giorni – Céline reinventa la prosa, utilizzando un linguaggio forbito e mischiandolo, allo stesso tempo, con l’argot – una sorta di slang alla francese – facendo spesso uso di ellissi ed iperboli. Scompone le convenzionali strutture sintattiche della scrittura, rendendo il suo stile unico e inconfondibile. “Ho inventato l’emozione della lingua parlata in forma scritta”, disse di sé l’autore. Poi: “Io sono uno stilista, un maniaco dello stile”, anche se non aveva certo gusto nel vestire. Ma quello che più colpisce il lettore che si trova tra le mani il suo “Viaggio al termine della notte”, del ‘32, è il modo brutale e terribilmente sincero che ha di raccontare l’altra faccia della natura umana. Quella che facciamo fatica a raccontare a noi stessi. Céline rompe il “muro della decenza” ed in questo consiste la sua vera innovazione. Destra e Sinistra lo tirano per le maniche dicendo: “È nostro! È nostro!”, ma Céline non è un rivoluzionario, non è un conservatore, né tantomeno un fascista. Céline è in guerra con il mondo, contro tutti. È un anarchico, e come tale si comporta, coerentemente.
Con il Viaggio al termine della notte, ritenuto il suo capolavoro, l’autore, nell’incipit introduttivo, pare voltare le spalle alla vita, per evadere dallo squallore e dalla miseria dell’animo umano. “Céline ha lanciato una bomba contro l’edificio dell’umanità”, dissero di lui. Per sventrarla e mostrarci le interiora, che saranno pure brutte, ma sono lì, sotto la pelle, e qualcuno dovrà pur fare il lavoro sporco di mostrarle a tutti. Se si dovesse descrivere il mondo visto con i suoi occhi, lo si rappresenterebbe facilmente come una torta a base di merda e sangue, di cui tutti devono prendersi la propria fetta. E come ciliegina sulla torta metteremmo un bel pezzo di fegato. Perché ci vuole fegato per affrontar la vita, per affrontar la Notte.
Nella sua opera, Louis-Ferdinand Céline riesce solamente nell’oscurità delle tenebre a far emergere la vera miserabilità dell’uomo, la realtà della natura umana che diviene chiara solo ai raggi della Luna che, come un Sole opposto, illumina il mondo di (amara) verità. Non ha certamente paura di parlare, e lo fa con quel suo linguaggio a metà fra l’insulto e la bestemmia, che non manca di un certo umorismo nero. Una scrittura straripante, la sua. E, difatti, sfonda gli argini…oltrepassa i confini. È stato definito in molti modi Céline: la bomba armata a rancore, il Cavaliere dell’Apocalisse, il visionario… l’innovatore. Dà sempre una ragione per odiare. Non per nulla lo scrittore Piero Sanavio ha intitolato la biografia che ha dedicato all’autore del Voyage “Virtù dell’odio”. Il titolo del capolavoro celiniano pare derivare da una strofa di una canzone dell’ufficiale svizzero a capo delle guardie di Luigi XVI, Thomas Legler: «La nostra vita è come il viaggio / di un viandante nella notte; / ognuno ha sul suo cammino / qualcosa che gli dà pena.»
Il protagonista del romanzo, che inizialmente pare essere un romanzo di guerra – ma solo questo non è – è Ferdinad Bardamu, alter ego dell’autore. Un uomo in fuga da se stesso e dalla vita. Sempre in viaggio, sempre via da qualcosa. Un romanzo autobiografico, insomma. Si arruola volontario nella Grande Guerra, per poi sfiorare la diserzione e finire in manicomio. Viaggia in Africa per poi prendersi la malaria, poi in America, tra le città “in piedi”. Perché in Europa, Bardamu, ha conosciuto solo “città sdraiate”. Ferdinand pare addirittura vestire i panni di un proletario marxista che vive l’alienazione del lavoro tra le rumorosissime fabbriche statunitensi. Solo che Marx non mise mai piede in una fabbrica –ha lavorato solo un giorno nella sua vita, lo sapevate?-, Céline invece sì. Uno a zero per Céline! Ferdinad è un solitario, non ama molto la compagnia degli uomini (Céline in effetti preferiva cani, gatti e pappagalli ai discendenti delle scimmie). Come amico si sceglie un emerito figlio di puttana come Robinson e come oggetto del desiderio Molly, una puttana a tutti gli effetti. Una puttana dal cuore grande, però. E l’ama, forse. Per come può amarla lui, a suo modo, insulso e miserabile com’è. Si innamora di una puttana, ironia della sorte, ironia della Notte. Poi la contraddizione più grande: Bardamu, il misantropo, diventa il medico dei poveri. Talvolta lavora gratis. Oppure ha semplicemente vergona e schifo, quindi pietà verso se stesso e gli altri, nel chiedere danaro in cambio di aiuti alla vita. E si defila.
Ci sono pagine che lasciano l’amaro in bocca e altre che colpiscono dritte al cuore. Mai ci si sarebbe aspettata una tale pietà e poesia da uno scrittore sempre definito come inguaribile odiatore d’uomini come quella nascosta tra queste pagine di nostalgia e squallore. Forse il giudizio più azzeccato sull’opera in questione fu quello di “romanzo nichilista”. Ferdinand-Bardamu pare essere attratto dal lato oscuro della vita per vedere fino a dove arriva il marcio, fino a dove termina la Notte…fino a dove arriva il fondo. Un viaggio al di là del bene e del male, si potrebbe dire. Bardamu guarda tutti dall’alto con sovrano disprezzo, con sovrana pietà.
Dopo le svariate peripezie Ferdinand arriverà a constatare: “C’era troppa notte intorno a me”. Ormai non aveva nient’altro di peggio da imparare. Che nessuno osi insegnargli nulla sullo squallore della vita! Lui non ha più maestri.
Il nostro autore morì un giorno prima di Ernst Hemingway, il che non fece altro che fomentare l’oblio che la damnatio memoriae aveva imposto su di lui.
Uno scrittore dimenticato, quindi? Non si può dire così, adesso.
Nel 2000 il cantante Vinicio Capossela lo ricorda omaggiandolo con “Bardamu”, una canzone scritta ispirandosi al “Voyage”; il giovane scrittore Maurizio Makovec, nel 2009, intitola il suo romanzo “Céline è fuori stanza”, come tributo al grande autore; mentre il regista/scrittore Paolo Sorrentino lo ricorda in tre dei suoi film, tra l’altro tutti costruiti su personaggi céliniani. Ne “L’uomo in più”, Tony Pisapia si esibisce nei pianobar con la sua canzone di successo “La notte”; ne ”Le conseguenze dell’amore” Titta Di Girolamo, il protagonista del film, si ritrova ad assistere alla lettura di una pagina del “Viaggio al termine della notte” nella hall di un hotel da parte di due sconosciute; ne “La Grande Bellezza”, invece, il regista utilizza l’incipit del romanzo per introdurre quello che, ad ora, è il suo capolavoro cinematografico, vincitore di un premio Oscar.
Questo vuole essere invece il nostro omaggio alla figura di Louis-Ferdinand Céline, stella caduta in fondo al mare…per far luce tra gli abissi.