“L’airone” è il romanzo del dolore definitivo, di un malessere esistenziale onnicomprensivo che pervade ogni aspetto della realtà: l’individuo, i suoi affetti, le cose, la natura. Soltanto dopo essere scesi nell’abisso più profondo sarà possibile risalire e progettare di nuovo. Bassani stesso dichiarerà di essersi sentito liberato dopo aver concluso quest’opera.

Edgardo Limentani, il protagonista, è un avvocato di quarantacinque anni, ebreo, sposato con la Nives, la sua ex-mantenuta, e padre di una bambina. Vive a Ferrara con la famiglia e sua madre, apparentemente non gli manca nulla. Una mattina d’inverno del 1948 si sveglia all’alba risalendo non senza fatica dal pozzo dell’incoscienza” per recarsi a Volano sul Po per una partita di caccia in botte.

Fin dall’inizio è chiaro il suo senso di estraneità, si percepisce assurdo e meschino, avvilito, si osserva allo specchio e si trova antipatico, ogni oggetto che gli cadeva sott’occhio, lo urtava, lo infastidiva”.

Edgardo sembra riassumere su di sé le caratteristiche dei precedenti personaggi bassaniani, portate a una dimensione esistenziale non rimediabile.

Il romanzo – in terza persona – accompagna Edgardo nei suoi spostamenti in quella che è l’ultima giornata della sua esistenza, indugiando nel descrivere con tecnica cinematografica i suoi gesti, anche minimi, accentuando la sua fisicità più prosaica, che contribuisce a sottolineare il senso di pesantezza che l’essere nel mondo gli trasmette. È la vita a risultargli insopportabile, fastidiosa.

“Bastava guardare le faccende della vita da una certa distanza per concludere che valevano tutte quante per quello che valevano, e cioè niente, o quasi”.

Da Ferrara Edgardo si dirige verso Volano, facendo tappa a Codigoro in un’osteria-albergo di proprietà del Bellagamba, un ex fascista repubblichino.

Edgardo si muove con continui ripensamenti, esita a lasciare casa sua, poi non vorrebbe più ritornarvi, a Codigoro si ferma sia prima che dopo la caccia. Questo paese è il punto intermedio tra lo spazio chiuso di Ferrara e quello aperto delle valli e viene descritto con accuratezza, ha un ruolo importante nella scelta finale del protagonista, che vaga finché non decide e programma il suo suicidio nei minimi dettagli. Allora si sentirà sicuro e felice, come sollevato per potersi liberare dalla sua materialità, finalmente padrone di sé. La sua lunga giornata, come la sua vita, si concluderà.

Edgardo pensa a se stesso come a una sopravvissuto: ebreo, è un proprietario terriero all’antica, impensierito per le rivendicazioni sociali comuniste, sospettoso, sempre preoccupato di fare qualche brutto incontro, memore del passato fascismo e dei pericoli attuali, soprattutto dopo che si è ritrovato, alla Montina – la sua tenuta – circondato dai lavoratori rabbiosi armati di vanghe e zappe.

In realtà la proprietà terriera è intestata a sua moglie Nives, ariana e cattolica, Edgardo è estraneo anche agli affari ormai, ma in cuor suo rimpiange il passato, quando la servitù era fidata e sapeva stare al suo posto e i proprietari si sentivano sicuri.

Di fronte alla spavalderia e all’arroganza dei comunisti, il protagonista è un perdente, come dimostra la partita di caccia. Giunto nelle valli del Po, appostato in botte, Edgardo non riesce a sparare neanche un colpo, se ne sta rintanato nel suo rifugio, mentre Gavino, il giovane che lo aspettava per fargli da guida, un ex partigiano comunista, abbatte numerose prede con mira sicura.

Moltissime immagini tipiche della narrativa bassaniana sottolineano la dimensione di chiusura e di angoscia: il pozzo. freddo da pozzo” è quello che irrompe dal portico di casa Limentani la mattina, la sensazione di calarsi dentro un pozzo investe il protagonista mentre scende le scale; la caverna o il budello sotterraneo”, la stessa botte è come una tana, un luogo appartato, chiuso, dal quale Edgardo esce con le premesse per la sua scelta finale.

Proprio al centro delle paludi – e al centro del romanzo – si colloca la scena dell’airone.

Con quest’animale, ferito a morte da Gavino, s’identifica Edgardo, che lo segue nei suoi ultimi spostamenti, ne immagina i pensieri, si pone raffiche di domande senza risposta.

È una scena molto crudele, descritta con maestria, che culmina nello scambio di sguardi tra Edgardo e l’airone, quando il personaggio si osserva proiettato nell’animale, si vede e di qui troverà la via per la liberazione. Prima di giungervi deve però scuotersi di dosso tutta la sua materialità, quella specie di gravame fisico che lo opprime fin dall’inizio della giornata.

Limentani prende sempre maggior coscienza di sentirsi un oggetto, prova un pesante disgusto di sé (ad esempio mentre mangia in trattoria), di tutte le necessità fisiche, è come se una lastra di vetro gli impedisse di partecipare realmente alla vita. È l’escluso, il diverso: non si integra con i nuovi ricchi imprenditori lombardi che, chiassosi e allegrotti, affollano la trattoria di Codigoro nei fine settimana, non prova nessuna affinità con il cugino Ulderico, uno che si è inserito, ha sposato un’ariana, si è convertito al cattolicesimo e ha generato sei figli.

Risuona l’eterna domanda fatale sull’identità: “ma lui, lui stesso, vestito da caccia, col berretto di pelo in testa, a quell’ora, sotto i portici, ma lui chi era, veramente?”

A Codigoro, dopo la caccia, di sera avviene la scena rivelatrice e catartica: Edgardo si sofferma davanti alla vetrina di un imbalsamatore. Gli animali gli appaiono perfetti, più belli di quando erano vivi, ormai non più deperibili, finalmente in pace.

“Per la prima volta, forse, da quando era al mondo, gli capitava di pensare ai morti senza paura. Soltanto loro, i morti, contavano per qualche cosa, esistevano veramente. Ci mettevano un paio d’anni a ridursi al puro scheletro: lo aveva letto da qualche parte. Ma dopo non cambiavano più, mai più. Puliti, duri, bellissimi, erano ormai diventati come le pietre preziose e i metalli nobili. Immutabili, e quindi eterni”.

Edgardo esce da quella dimensione estranea, trasognata in cui si era trovato finora e acquisisce una straordinaria lucidità, è felice, sa quel che deve fare. Torna a Ferrara, prepara tutto con cura, prende congedo dalla famiglia e dalla madre e si uccide, padrone ora del suo destino.

Romanzo cupo, “L’airone” dà voce a un malessere insinuante e profondo, che trova una catarsi nel suicidio finale, è come se l’Autore avesse riversato nella scrittura tutto il suo male di vivere per liberarsene, per oggettivarlo e poi allontanarlo da sé e aprire la strada a nuove creazioni artistiche. Quel senso di oppressione e di morte che l’ha accompagnato in molte opere raggiunge qui il suo culmine, il suicidio diventa una forma di autodeterminazione del personaggio, un suo liberarsi dalla schiavitù degli oggetti – lui stesso è divenuto un oggetto e perciò eliminabile – e della sorte – quel destino un po’ voluto, un po’ subito – che pareva esser connaturato alla stirpe ebraica.

Realizzato l’atto finale, l’Autore, liberato dal personaggio – non c’è più infatti l’io narrante, ma la terza persona – potrà rinascere e aprirsi a un nuovo mondo poetico.

Marina Monego

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