Di: Alberto Giovanni Biuso
La prima legge della pragmatica della comunicazione umana afferma che è impossibile non comunicare. La potenza dell’arte e della filosofia consiste anche nel mostrare quanto parziale e superficiale sia un simile principio. È vero, certo, che qualunque gesto compiuto da un umano comunica qualcosa ma tutto ciò che degli altri può essere detto, osservato, esperito o analizzato, non dischiuderà mai nulla della loro alterità. «Noi siamo soli. Non possiamo conoscere e non possiamo essere conosciuti» (p. 47). Beckett e Proust condividono integralmente questa consapevolezza. Per entrambi «l’amicizia implica una quasi pietosa accettazione di valori apparenti. L’amicizia è un espediente sociale, come la tappezzeria o la distribuzione dei bidoni delle immondizie. Essa non ha nessun significato spirituale» (46). Questa solitudine condotta a livelli estremi, radicali e parossistici si chiama amore. Il suo primo dogma è l’esistenza dell’altro, il suo primo errore è credere che tale esistenza sia reale. E invece la realtà è una molteplicità frammentata, sfaccettata, irriducibile allo sguardo, al concetto e all’azione: «Così il breve tragitto delle sue labbra verso la guancia di Albertine crea dieci Albertine, e trasforma un banale essere umano in una dea dalle molte teste» (37), tanto che quando l’avrà perduta il Narratore dice a se stesso che «per consolarmi, non è una sola ma innumerevoli Albertine che io dovrei dimenticare» (cit. a p. 43; «Pour me consoler, ce n’est pas une, c’est d’innombrables Albertine que j’aurais dû oublier», À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 1963). Perché accade questo? Che cosa fa dei corpi altrui, posti davanti a noi, aperti al nostro sguardo, pronti alla conversazione, a volte intrecciati nelle mani, nella bocca, negli organi genitali, che cosa li mantiene sideralmente distanti? Non lo spazio, è evidente, ma il tempo. Il tempo che è insieme il flusso unitario del fiume e il frammento di ogni goccia che lo compone. Il tempo che è un susseguirsi inarrestabile di identità e differenza. «Per cui, qualunque sia l’oggetto, la nostra brama di possesso è, per definizione, insaziabile. Nel migliore dei casi, tutto ciò che viene realizzato nel Tempo (tutto ciò che il Tempo produce), nell’Arte come nella Vita, può essere posseduto solo in successione, con una serie di annessioni parziali, mai integralmente e subito. La tragedia del legame Marcel-Albertine è la tragedia-tipo delle relazioni umane il cui fallimento è già predeterminato» (17). Il tempo è signore di ogni cosa, dell’intero e di ciascuno. Il tempo è tutto. «Le creature di Proust, dunque, sono vittime di questa condizione e circostanza predominante – il Tempo. […] Non è dato sfuggire alle ore e ai giorni. E neppure al domani e allo ieri» (14).
Analizzando la natura temporale dell’amore Proust disvela, come nessun altro artista o filosofo ha mai fatto, la ragione per la quale si tratta di un sentimento tragico. Beckett riassume perfettamente la logica tragica perché temporale del desiderio.
Lui sa che quella donna non ha alcuna realtà, che «l’amore più esclusivo per una persona è sempre l’amore per altro», che di per sé lei è meno di niente, ma che nel suo essere niente c’è, attiva, misteriosa e invisibile, una corrente che lo costringe a inginocchiarsi e ad adorare una oscura e implacabile Dea, e a fare sacrificio di sé stesso davanti a lei. E la Dea che esige questo sacrificio di sé stesso davanti a lei. E la Dea che esige questo sacrificio e questa umiliazione, la cui unica condizione di patrocinio è la corruttibilità, e nella cui fede e adorazione è nata tutta l’umanità, è la Dea del Tempo. Nessun oggetto che si estenda in questa dimensione temporale tollera di essere posseduto, intendendo per possesso il possesso totale, che può essere raggiunto soltanto con la completa identificazione di oggetto e soggetto. L’impenetrabilità della più volgare e insignificante creatura umana non è semplicemente un’illusione della gelosia del soggetto […]. Tutto ciò che è attivo, tutto ciò che è immerso nel tempo e nello spazio, è dotato di quella che potrebbe essere definita un’astratta, ideale e assoluta impermeabilità. In tal modo possiamo capire la posizione di Proust: «Noi immaginiamo che l’oggetto del nostro desiderio sia un essere che possa venir deposto davanti a noi, racchiuso in un corpo. Ahimè! Esso è l’estensione di quell’essere a tutti i punti dello spazio e del tempo che esso ha occupato e occuperà. Se noi non possediamo il contatto con quel luogo e con quell’ora, non possediamo quell’essere. Ma noi non possiamo toccare tutti quei punti» («Et je comprenais l’impossibilité où se heurte l’amour. Nous nous imaginons qu’il a pour objet un être couché devant nous, enfermé dans un corps. Hélas! Il est l’extension de cet ètre à tous les points de l’espace et du temps que cet être a occupés et occupera. Si nous ne possédons pas son contact avec tel lieu, avec telle heure, nous ne le possédons pas. Or nous ne pouvons toucher tous ces points», Recherche, cit., p. 1677:). E ancora: «Un essere, disseminato nello spazio e nel tempo, non è più per noi una donna, ma una successione di eventi sui quali non possiamo far luce, una serie di problemi insolubili, un mare che, come Serse, vorremmo ridicolmente percuotere con verghe per punirlo di aver inghiottito il nostro tesoro» («Et pourtant, je ne me reandais pas compte qu’il y avait longtemps que j’aurais dû cesser de voir Albertine, car elle était entrée pour moi dans cette période lamentable où un être, disséminé dans l’espace et dans le temps, n’est plus pour nous une femme, mais une suite d’événemets sur lequels nous ne pouvons faire la lumière, une suite de problèmes insolubles, une mer que nous essayons ridiculement, comme Xerxès, de battre pour la punir de ce qu’elle a englouti. Une fois cette période commencée, on est forcément vaincu»; Recherche, cit., p. 1680). E definisce l’amore come «lo Spazio e il Tempo resi sensibili al cuore» («L’amour, c’est l’espace et le temps rendus sensibles au cœur» Recherche, cit., p. 1893). (41-42)
Insignificanza, volgarità, nullità costituiscono la condizione naturale dell’altro. È soltanto il desiderio di possedere il suo corpotempo fatto di eventi e di memorie, assai più che il semplice corpo fatto di organi e tessuti, a trasfigurarlo nella favolosa e insondabile meta della nostra passione. Irraggiungibile meta. Meta foriera di angoscia, gettata nell’attesa, intessuta di gelosia, sciolta nell’acido di quei sospetti nei quali immergiamo ogni evento ricordato, trasformando il più insignificante dettaglio «in un veleno che esaspera il suo amore o il suo odio o la sua gelosia (termini, questi, intercambiabili) e corrode il suo cuore» (41). Questo è il lavoro della mente amorosa, l’incessante attività di un’ermeneutica della diffidenza che nessuna certezza potrà mai conseguire poiché tale sicurezza ha come condizione l’intero temporale nel quale l’altro distende il proprio corpo negli anni. Il ricordo incessante della persona che amiamo diventa così l’abitudine all’angoscia che la sua inevitabile distanza rappresenta. Abitudine che è una delle figure temporali più potenti e pervasive dell’esistenza umana. Comprendiamo dunque per quale ragione l’amore -che è di per sé fonte di gioia- si scompone nella frammentata potenza di istanti fatti troppo spesso di ansia, di dolore, di attesa. La vita appare in tal modo per quello che è in se stessa e agli occhi della Gnosi: un paradiso perduto, dal quale una qualche entità aberrante e malefica ci ha cacciati per gettarci nell’incomprensibile struttura che è il tempo.
E sta qui anche la ragione per cui l’universo di Proust è senza morale, veramente al di là del bene e del male, dell’ingiusto e del giusto: «La tragedia non ha niente a che fare con la giustizia umana. La tragedia è l’esposizione di una espiazione, ma non della miserabile espiazione per l’infrazione di un ordinamento locale, codificato da furfanti per dei pazzi. Il personaggio tragico rappresenta l’espiazione del peccato originale, dell’originale ed eterno peccato di lui e di tutti i suoi socii malorum: il peccato di essere nato» (48).
Per Proust la via d’uscita, l’unica, non è etica né psicologica. È la parola. La scrittura ci libera dall’assurdo dei giorni e dei sentimenti assurdi per trasfigurare giorni e sentimenti nella parola che salva. È per questo che «per Proust, la qualità del linguaggio è più importante di qualsiasi sistema etico o estetico» (61). Una qualità che splende di sanguinosa perfezione nel modo in cui lo scrittore definisce l’amore: «Come possiamo avere il coraggio di voler vivere, come possiamo fare un gesto che ci preservi dalla morte, in un mondo dove l’amore non è provocato che dalla menzogna e consiste solamente nel bisogno di veder le nostre sofferenze placate dall’essere che ci ha fatto soffrire?» («Comment a-t-on le courage de souhaiter vivre, comment peut-on faire un mouvement pour se préserver de la mort, dans un monde où l’amour n’est provoqué que par le mensonge et consiste seulement dans notre besoin de voir nos souffrances apaisées par l’être qui nous a fait soffrir?», Recherche, cit., p. 1673). Beckett afferma giustamente che «in tutta la letteratura non esiste analisi di quel deserto di solitudine e di recriminazione che gli uomini chiamano amore proposta e sviluppata con tale diabolica mancanza di scrupoli» (40).
Samuel Beckett
Proust
(1931, The Calder Educational Trust LTD, 1965)
A cura di Piero Pagliano
Con uno scritto di Margherita S. Frankel
SE, Milano 2004
Pagine 127